Il Manifesto: Bufale online, censura e poliziotti non servono

Bufale online, censura e poliziotti non servono

Hacker’s Dictionary. La rubrica settimanale a cura di Arturo Di Corinto

di ARTURO DI CORINTO per Il Manifesto del 1 Febbraio 2018

Le fake news, le notizie false che inquinano il dibattito pubblico e la democrazia appaiono come un problema tanto serio da far decidere al ministro Marco Minniti di creare una task force di contrasto. L’iniziativa è meritevole ma forse insufficiente e fuorviante se si pensa che le fake news esistono perché qualcuno ci vuole credere.

Purtroppo è vero che attraverso le notizie false è possibile manipolare l’opinione pubblica e orientare le decisioni dei governi, delegittimare personalità e istituzioni e sovvertire il dibattito scientifico.

Le notizie false sono sempre esistite, ma oggi hanno un alleato potente: la viralità del web che ne facilita la propagazione a colpi di click.

E tuttavia forse non è vero che possano essere contrastate a partire da chi sul modello di business della selezione e personalizzazione delle notizie online ha costruito vere e proprie community di consumatori, come Facebook, ad esempio. Il funzionamento dei suoi algoritmi predittivi è tale che se hai cliccato una certa notizia sarai pronto a cliccarne una simile, anche fasulla, e per questo ce le presenteranno prima di altre.

I giornali e i media in generale non sono certo immuni dalle fake news. I giornali accusati da Trump di diffondere notizie false su di lui hanno potuto esibire gli anticorpi alla loro diffusione riconoscendo da una parte la pubblicazione di notizie imprecise o non adegutamente verificate, dall’altra hanno potuto certificare la bulimica produzione trumpiana di notizie fasulle, centinaia nel suo primo anno di presidenza.

Questo vuol dire che è possibile contrastare le fake news e che giornali e giornalisti hanno un ruolo importante da giocare in quest’arena. Si chiama fact checking.

Il punto però è che anche se sveliamo quali sono le fake news gli individui non vogliono riconoscerle come tali. Le persone, come hanno dimostrato diversi studi, non sono capaci di riconoscere le notizie vere da quelle false perché sono notizie verosimili, e quindi capaci di ingannare, ma è pur vero che le persone alle notizie false ci vogliono credere.

Questo accade quando tali notizie confermano i propri pregiudizi, consentono di spiegare fatti complessi senza sforzo, legittimano orientamenti politici e culturali preesistenti, producono un vantaggio nel gruppo di appartenenza. Sono tutti effetti noti in letteratura come «confirmation bias», il pregiudizio di conferma, «effetto bandwagon», l’adeguamento alla maggioranza; quando favoriscono le «echo chambers» (le casse di risonanza) prodotte dalla «filter bubble», la tendenza a interagire solo con chi la pensa come noi. Tutte reazioni a un «overload» informativo che ci porta a semplificare e banalizzare il mondo circostante.

È un principio basilare di economia cognitiva ma anche il frutto della tendenza tutta umana ad avere sempre ragione (lo raccontava Benedetto Vecchi su questo giornale) che nutre i «backfire effects», cioè la reazione aggressiva a tesi che non condividiamo.

Se a questi «bias cognitivi» aggiungiamo la guerra dell’attenzione che i media combattono a colpi di sensazionalismo e titoli strillati, e che il modello di business del capitalismo delle piattaforme si basa sulla personalizzazione estrema dell’informazione generata da siti, app e social, capiamo dove sta la gran parte del problema.

Qualità e pluralismo di giornali, radio e tv, fact checking, media literacy, rispetto e dialogo sono le principali risorse a cui appellarsi per combattere la disinformazione che fa perno sulle fake news.