Un pinguino e uno gnu al bazar dei sogni

FREESOFTWARE
ARTURO DI CORINTO
IL MANIFESTO del 31 Agosto 2002

La qualità e l’affidabilità del codice ma soprattutto il carattere di
esperimento sociale ed egualitario assunto da una impresa intellettuale.
Sono questi gli ingredienti che hanno decretato il successo del progetto
Gnu/Linux

Negli ultimi dieci anni, Linux e la sua mascotte, il pinguino Tux, sono
diventati l’icona del software libero anche a dispetto dell’importanza
avuta dal progetto GNU (www.gnu.org) nella sua affermazione. I motivi
sono molti, ma forse il più importante non riguarda né la fortuna del
nome, facile da ricordare e da pronunciare, e neppure la bravura tecnica
di Torvalds che ha scritto il kernel Linux. E non dipende neppure dal
consenso che Linus ha raccolto fra i media o, come qualcuno ha detto,
per la sua faccia da bravo ragazzo, sposato e con figli, assai diversa
dall’immagine degli hacker barbuti e capelloni come Richard Stallman.

Il successo di Linux sta tutto nell’averlo inserito nella grande
famiglia GNU, in tal modo consegnandolo ad un comunità di appassionati
sviluppatori. Il kernel Linux di Torvalds, lo ripetiamo, non sarebbe
infatti stato sufficiente da solo a far funzionare un sistema operativo
che per essere completo ha bisogno di «compilatori, editor, formattatori
di testo, software per la posta, e molte altre cose», cosa che invece il
sistema Gnu offriva. Viceversa, il sistema Gnu senza quel kernel non
poteva funzionare. La ricetta del successo si chiama GNU/Linux.

L’altro ingrediente del successo di Linux è stata e rimane la capacità
di Linus di coinvolgere e motivare tanti altri programmatori in
un’impresa intellettuale che ha i contorni dell’esperimento sociale.
Un’impresa cominciata al momento giusto, quando la diffusione dei Pc e
dei software necessari a farli funzionare, prodotti industrialmente e
venduti a caro prezzo, era diventata un problema per il mercato stesso.

Così gli alti costi associati al software proprietario e quel gioco
perverso per cui è necessario comprare macchine sempre più potenti per
far girare nuove versioni di sistemi operativi già vecchi, le aumentate
restrizioni legali all’uso del software, le leggi che rendono criminali
chi regala una copia del proprio software a un amico, il boom di
Internet e l’avvento dell’economia digitale hanno creato lo spazio per
tante imprese legate all’economia del software libero come la Suse, la
Debian o la Slackware.

Per gli esperti e i professionisti il motivo dell’adozione di Gnu/Linux
sta nella qualità del codice, nella sua affidabilità e sicurezza; per i
curiosi e i newbies (i neofiti) sta, invece, nei prezzi stracciati,
nella curiosità delle cose nuove cui bisogna aggiungere un pizzico di
ideologia anti-monopolistica. Non è però secondario il fatto che i
sistemi operativi Gnu/Linux possono funzionare persino su computer
considerati obsoleti come i vecchi «486», e che se l’installazione di un
applicativo non riesce, basta andare in un newsgroup per avere
sugggerimenti e aiuti nel volgere di pochi minuti, e sentirsi parte di
una comunità.

Consapevoli di ciò, Eric Raymond, Bruce Perens ed altri fondano, nel
1988, la OSI, la Open Source Initiative (www.opensource.org), per
rendere più appetibile al mercato i prodotti del software libero
eliminando i riferimenti ai principi ed ai valori della comunità
cresciuta intorno alla Free Software Foundation. Sarà motivo di
un’infinita polemica fra loro e Stallman.

Il 1988 è lo stesso anno in cui compare la fortunata distribuzione di
RedHat, compagnia che fu anche quotata in borsa e che provò senza
successo ad assumere Torvalds che gli preferì la Transmeta dove
attualmente lavora in California.

Ma che sia open source oppure free software, la forza del software
libero risiede comunque nell’applicazione di un modello di cooperazione
orizzontale e paritaria fra programmatori, sistemisti, grafici,
impaginatori, che ha inaugurato una filiera produttiva dove il metodo di
sviluppo è più importante degli aspetti tecnologici della realizzazione
del software e che ha sfatato il mito in virtù del quale solo da
un’organizzazione centralizzata e gerarchica nasce un buon programma. Al
contrario, come sostiene Eric Raymond nel libro The Cathedral and the
Bazaar (www.tuxedo.org/~esr/), per la produzione di software di alta
qualità, il modello del bazar, luogo di chiacchiere, incontri e scambi
disordinati, è vincente rispetto al modello della cattedrale, la cui
costruzione parte dalle fondamenta e segue un progetto preciso e
ordinato, come accade col software proprietario.

E infatti a più riprese gli sviluppatori di Linux hanno dimostrato che
un buon prodotto nasce da un bisogno individuale, come dice Raymond, ma
che non può fare a meno di un’idea, di un progetto, come sostiene
Stallman. Il trait d’union di queste due visioni sta nell’idea che la
rete vada considerata il luogo dove condividere sogni e bisogni. A
differenza dei prodotti commerciali, il software libero può contare su
una base di programmatori, debuggers, beta tester, che sono i primi e i
migliori utilizzatori del software, seguendo un metodo per cui gli
utilizzatori stessi diventano sviluppatori e tutti, in virtù della
possibilità di accedere liberamente al codice del software, possono
migliorarlo «ripulirlo, accorciarlo». Un lavoro questo che è alla base
del termine hacking (to hack significa «tagliare, sminuzzare,
sfrondare», cioè «ridurre, ripulire, aprirsi un varco», fra le linee di
codice, per gli informatici. Da hacking, naturalmente, deriva il termine
hacker).

Oggi il software proprietario e quello commerciale competono per i
favori non solo del mercato. Ma mentre gli oligopoli del software
proprietario lottano per conservare antichi privilegi, i sostenitori del
software libero cercano di spostare il confronto sulla qualità,
l’affidabilità, l’economicità e la sicurezza dei propri prodotti,
dimostrando che su questo terreno la superiorità del software
proprietario rispetto a quello libero è solo un mito.

Per quanto riguarda la sicurezza, l’argomentazione dei produttori di
software non libero èche la completa trasparenza del codice può favorire
intrusioni e manomissioni da parte degli «hacker». Ma è piuttosto vero
il contrario. Il controllo pubblico e distribuito del codice è il
migliore deterrente per i malintenzionati perché, al contrario del
software proprietario chiunque può verificare bachi di funzionamento,
comunicarli e correggerli. In tempo reale, grazie ad Internet. Il fatto
che gli algoritmi crittografici pubblici della comunicazione in Internet
non sono mai stati battuti, ne costituisce la dimostrazione più
evidente. Per quanto riguarda la qualità e l’assistenza del software
libero, ormai dovrebbe essere chiaro, sono garantite non solo dalla
pletora di programmatori che costantemente si scambiano consigli e
suggerimenti per migliorare il codice su una scala ineguagliabile da
qualsiasi azienda, ma soprattutto dal fatto che costoro spesso lavorano
solo per passione e per il riconoscimento all’interno della comunità. Il
loro obiettivo è la qualità e non quello di portarsi a casa lo stipendio
da «permatemp» (lavoratore permanentemente temporaneo) tipico dei
lavoratori delle grandi softwarehouse. E scusate se è poco.

Così mentre Microsoft guarda con sospetto il business del software
libero, altre case, come IBM e Sun Microsystem ci si sono buttate a
pesce. Oops, scusate, «a pinguino».

(3/continua)