Eccovela. Qualche tempo fa, grazie a una serie di raggiri, alcuni smanettoni sono riusciti a impossessarsi della consolle di comando dei tecnici di Twitter e a far partire una serie di messaggi falsi da profili seguitissimi. Fra questi quello di Joe Biden, il democratico candidato alle presidenziali americane; di Bill Gates, fondatore della Microsoft; di Elon Musk, il ragazzaccio di Tesla che manda i razzi sulla Luna.
Il messaggio invitava i follower a inviargli del denaro in Bitcoin, la moneta elettronica crittografata, per averne in cambio il doppio, perché, diceva più o meno il messaggio, “vogliamo restituire quello che ci è stato dato”. Gli hacker avrebbero ottenuto in questo modo centomila dollari in Bitcoin prima di essere scoperti. Ma hanno violato anche altri profili, compreso quello del politico xenofobo belga Geert Wilders e di Kim Kardashian, l’ereditiera che sculetta su Instagram e TikTok.
La bravata è costata il carcere ad uno degli autori dell’hack (l’intrusione non autorizzata) di Twitter il quale, per riguadagnare la libertà, ha chiesto al giudice di abbassargli la cauzione fissata a 750mila dollari americani.
Ecco, all’udienza, a causa della pandemia, non tutti i partecipanti si trovavano in aula ma erano collegati grazie a Zoom, la famosa app per videoconferenza tanto usata durante il lockdown. Ma il collegamento dall’aula del tribunale non era protetto, così l’udienza è stata interrotta più volte dagli zoombombers con musica, parolacce, invettive contro la magistratura e immagini porno. Il giudice è stato costretto a interromperla dopo 25 minuti, augurandosi che le prossime udienze saranno “protette da password”.
Visto che la nostra rubrica si chiama “Hacker’s Dictionary” è giusto ricordare che la parola ‘zoombombers’ viene da ‘zoombombing’, neologismo creato dal giornalista Casey Newton del giornale The Verge, sulla falsariga di ‘mailbombing’, il bombardamento delle email, e che a marzo aveva sperimentato cosa significa avere degli imbucati alla festa di compleanno. Nel suo caso si trattava di un video-aperitivo da lockdown, a distanza, ma il risultato era stato lo stesso di quelle feste studentesche che finiscono male quando i non invitati avevano cominciano a condividere il proprio schermo dove scorrevano immagini pornografiche.
Potrebbe succedere alla riapertura delle scuole che hanno deciso di usare Zoom come strumento didattico? Accadrà di sicuro, se non si prenderanno le contromisure adeguate. E questo vale per tutti gli altri software che svolgono funzioni simili. Con un accorgimento in più: usando software e server italiani potremmo non solo evitare di trasferire dati utili alle BigTech oltre oceano, ma gestire in casa eventuali controversie che nel cyberspazio didattico potrebbe verificarsi.
Già i programmatori italiani hanno chiesto al ministro Lucia Azzolina di intervenire per privilegiare software casalingo e open source rispetto al software chiuso, visto che la legge, a parità di funzioni obbliga la Pubblica Amministrazione a farlo, ma aiuterebbe anche l’economia di un paese, il nostro, che in quanto a produzione artigianale di software non ha niente da invidiare a Microsoft e Google a cui è stata già affidata la posta elettronica di professori e studenti.