Libro: Il valore della Carta dei diritti di Internet

Il valore della Carta dei diritti di Internet

A cura di Laura Abba e Angelo Alù

Prefazione di Arturo Di Corinto

Editoriale Scientifica, 2020

ISBN 9788893917353

€ 15 – pp 220

Stefano Rodotà e la Magna Charta di Internet

Arturo Di Corinto

Ogni persona ha diritto ad essere posta in condizione di acquisire e di aggiornare le capacità necessarie ad utilizzare Internet in modo consapevole per l’esercizio dei propri diritti e delle proprie libertà fondamentali.”
(Stefano Rodotà, La Repubblica 28 Luglio 2015, intervista di Arturo Di Corinto)

Capelli bianchi da vecchio saggio, occhi chiari e curiosi. Mimica teatrale e gesticolazione garbata. Un fascinoso ottantenne dal piglio giovanile, ben vestito pure in maniche di camicia. Un volto che ricorda le origini magnogreche e manifesta la “nobile semplicità e la quieta grandezza” della statuaria neoclassica. Tanto discreto sulla sua vita privata quanto estroverso in pubblico. Elegante nei modi, riservato anche con gli amici. Tollerante verso tutte le opinioni ma determinato nelle convinzioni. Flessibile nell’ascolto ma rigoroso sulle idee. Attento coi giovani, sfuggente coi seccatori. Amante delle buone conversazioni, ma sempre pronto ad “andare dal dentista” quando parlare diventava inutile.

Stefano Rodotà era così. Un colto globetrotter che, dopo essersi autorottamato – “alla fine del mio secondo incarico alla Privacy”, diceva lui – non ha mai smesso di leggere, studiare e girare il mondo per continuare ad imparare. Per portare in giro le idee e dare battaglia sui diritti.

Già, “i diritti”: ai beni comuni, alla riservatezza, all’informazione, alla manifestazione del pensiero, alla salute, al lavoro, al reddito, all’esistenza. Diritti sempre declinati nella cornice del Diritto con la D maiuscola, di quella giurisprudenza da lui tanto amata che, al pari della società, vedeva come un corpo vivo e in costante trasformazione, non come qualcosa di fisso e immutabile. Una pratica e una teoria che, con un gioco di parole, era diventato il titolo di un suo libro: “Il Diritto di avere diritti”.

Tenace difensore dei beni comuni, anche negli ultimi vittoriosi referendum su acqua e nucleare, aveva condotto molte battaglie per i diritti civili e l’autodeterminazione delle donne e degli uomini. Attivista per la libertà della rete e il pluralismo dell’informazione, fedele osservante della Costituzione, Stefano Rodotà è stato un “garantista” di quelli veri. Fu scelto per questo a presiedere per due mandati consecutivi l’Autorità Garante per la tutela dei dati personali.

Era un tecnico della Legge. Giurista insigne, professore emerito di Diritto Civile, già in predicato di andare alla Consulta e alla Presidenza della Camera dei Deputati, lo stopperanno sempre. Conosceva la Costituzione a menadito e non perdeva occasione per citarne i migliori articoli, sia parlandone in pubblico che scrivendone. Aveva insegnato alla Sorbona e al Collegio di Francia. Dirigeva riviste di diritto ed era membro di numerosi comitati scientifici.

Rodotà è stato anche un uomo politico. Parlamentare per diverse legislature con il PCI e la Sinistra Indipendente prima di aderire al PDS di cui fu presidente per un breve periodo. Vicepresidente della Camera dei Deputati, aveva vissuto in prima persona l’elezione di Luigi Scalfaro.

Rodotà è stato un fedele interprete e custode della Costituzione, sapeva come funziona il Parlamento, era un padre nobile della sinistra, molto popolare nei movimenti, amato sia da chi lo leggeva su La Repubblica e il Manifesto che dagli spettatori dei talk show televisivi. E faceva il pieno di pubblico nei festival letterari, del diritto, della legalità, acclamato da studenti e intellettuali.

Fu vicino a diventare lui stesso Presidente delle Repubblica: i giochi di palazzo gli preferirono il “Napolitano bis”. Che cosa gli mancava? Niente. Forse aveva quel difetto di essere testardo e orgoglioso che gli riconoscevano i calabresi come lui? No, era indipendente. Non amava inciuci e compromessi ed aveva la dignità dello statista. Per questo era una risorsa, destinata a rimanere in riserva a causa di chi, nei partiti di sinistra, non tollera gli uomini indipendenti.

Tra i lasciti di Stefano Rodotà c’è la Carta dei diritti per Internet. Non fu esattamente una sua idea, ma fu lui a realizzarla.

La storia della Carta

L’idea di una Carta dei diritti di Internet nasce nel 2005 in Tunisia e fu proposta al mondo delle telecomunicazioni, ai governi e all’associazionismo proprio da un gruppo di nostri connazionali riuniti nella Casa Italia di Tunisi. Io c’ero. L’occasione per farlo era il World Summit on Information Society voluto dall’Onu per realizzare i “Millennium goals”. L’Organizzazione per le Nazioni Unite aveva finalmente realizzato che non ci potevano essere pace, democrazia e sviluppo senza garantire a tutti l’accesso alle nuove tecnologie dell’informazione che stavano progressivamente e inesorabilmente convergendo in Internet.

L’impulso dato dagli italiani fu decisivo nella decisione del segretario Onu di allora, Kofi Annan, che volle da quel momento in poi un Internet Governance Forum mondiale (IGF) per abbattere il digital divide e discutere di come rendere la rete inclusiva e partecipata per sviluppare il potenziale umano dei cittadini di tutto il mondo.

Portata in Brasile dove, modificata, è divenuta una realtà, la “Carta di Tunisi” ha finora ispirato molti governi nel definire le “regole d’uso” della rete Internet e ad oggi si contano circa 100 tentativi nel mondo per approvarne una versione rispettosa delle specificità nazionali, ma sulla base di un’idea convergente dei diritti che vanno dalla protezione della persona – contro stalking online, cyberbullismo, hate speech – alla protezione delle infrastrutture di rete da virus, malware, spamming, attacchi terroristici e sabotaggi.

Nella proposta di Stefano Rodotà la “Magna Charta” italiana dei diritti non doveva essere vincolante ma offrire dei principi di alto livello cui conformarsi, con la speranza che potesse contribuire a generare leggi di sistema. Uno sforzo necessario vista la difficoltà di darsi leggi internazionali per la rete: si pensi all’autarchia cinese, russa e iraniana che ancora oggi minacciano di staccarsi dalla rete globale per farsi una rete dedicata. All’epoca per sfuggire al controllo tecnico degli USA rivelato da Snowden del 2013, oggi come arma di ricatto di paesi come Russia, Cina e Iran ogni volta che gli si chiede il rispetto dei diritti umani e civili delle loro popolazioni.

La Carta dei diritti di Internet però era una proposta per garantire che la governance di Internet fosse decisa dal basso, con il contributo e l’impegno di tutti. E fu l’idea grandiosa per realizzare le buone intenzioni del summit di Tunisi.

La Governance di Internet, cioè la gestione tecnica partecipata della rete delle reti, non il suo governo politico, era oggetto di dibattito pubblico dal 1995, ma solo nel 2003, in preparazione del World Summit on Information Society (WSIS) era diventato un tema istituzionale in seno alla comunità delle nazioni, cioè all’Onu. Nel 2005 il Wsis tenutosi a Tunisi affrontò il tema della governance di Internet direttamente, a causa della richiesta da parte di alcuni grandi paesi di generalizzare le competenze della governance dell’indirizzamento dei nomi a dominio di Internet per sottrarle al monopolio di fatto dell’Icann americana controllata dalla Federal Communication Commission.

Data la delicatezza e la rilevanza geopolitica del tema – chi fornisce gli indirizzi decide se puoi arrivare a un sito web oppure no – a Tunisi si optò per una soluzione diplomatica e si decise di discuterne in un ambito specifico, creando per l’uopo l’Internet Governance Forum, una sorta di “parlamento di Internet” dove gli Stati avrebbero potuto confrontarsi fra di loro insieme a università, imprese, esperti e associazioni non profit (gli stakeholders), per individuare e praticare le soluzioni migliori utili a garantire crescita e stabilità dell’internet.

Da allora si sono tenuti quindici IGF a livello mondiale: il primo ad Atene, l’ultimo a Berlino passando per Rio de Janeiro, Vilnius e Nairobi. I temi all’ordine del giorno degli IGF sono stati sempre gli stessi, declinati in base alle tecnologie emergenti e al divenire pervasivo della rete: apertura, sicurezza, privacy, multilinguismo, multiculturalismo, sviluppo delle infrastrutture.

Ecco, proprio ad Atene nel 2006 l’ interesse verso il tema della governance della rete da parte dell’opinione pubblica rappresentata nelle dynamic coalitions, trovò una forte sponda proprio nell’idea dell’Internet Bill of Rights – un insieme di principi generali come nella prima parte della Costituzione italiana, ma dedicati ad Internet, proposti proprio dal comitato governativo italiano capeggiato sin da allora dal giurista Stefano Rodotà.

Questo insieme di principi altro non è che la trasformazione dell’appello lanciato a Tunisi dal senatore dei Verdi Fiorello Cortiana e firmato fra gli altri da Gilberto Gil, Lawrence Lessig e Richard Stallman, oltre che dal sindaco Walter Veltroni e dall’allora ministro Lucio Stanca.

In sintesi l’appello “Tunisi mon amour”, riaffermava l’importanza del rispetto delle regole democratiche a sostegno dello sviluppo della rete: il suo carattere aperto, democratico e universale, calato in una serie di innovazioni tecnologiche e sociali che andavano dal software libero e open source alle tecnologie per la privacy, dalla limitazione dei brevetti fino al rispetto del fair use per i contenuti coperti da copyright, regole in grado di tenere conto dei comportamenti reali degli utenti in una prospettiva multistakeholder

Su questa base si giungerà alla definizione del Bill of Rights sostenuto dal governo italiano dell’epoca e nel 2007, all’Igf di Rio De Janeiro, il sottosegretario alle telecomunicazioni Luigi Vimercati riporterà a casa un importante accordo con il ministro brasiliano alla cultura Gilberto Gil per una Carta dei Diritti della Rete.

Furono molti i tentativi di sabotarla e di modificarla rendendola palatibile ai potenti. Il suo nome fu persino cambiato dai governanti in senso propagandistico in “Carta dei diritti e dei doveri di Internet”, fino ad arrivare alla commissione parlamentare che ne realizzerà la proposta con a capo Rodotà.

Il 3 novembre del 2015 la Camera dei deputati approva due distinte mozioni per promuovere la Dichiarazione dei diritti in Internet. Con una votazione nominale, la cosiddetta “mozione Quintarelli” passa con 437 voti favorevoli senza nessun contrario. Con il sostegno del sottosegretario alle telecomunicazioni, Antonello Giacomelli intervenuto in aula per sostenere la proposta che “Impegna il governo ad attivare ogni utile iniziativa per la promozione e l’adozione a livello nazionale, europeo e internazionale dei princìpi contenuti nella Dichiarazione adottata il 28 luglio 2015 dalla Commissione per i diritti e i doveri in Internet istituita presso la Camera dei deputati; a promuovere un percorso che porti alla costituzione della comunità italiana per la governance della Rete definendo compiti e obiettivi in una logica multistakeholder.”

La Dichiarazione dei diritti era stata precedentemente approvata il 28 luglio 2015 da una Commissione di studio ad hoc promossa dalla Presidente della Camera onorevole Laura Boldrini – composta da deputati attivi sui temi dell’innovazione tecnologica, studiosi ed esperti, operatori del settore e rappresentanti di associazioni – dopo una serie di audizioni e una consultazione pubblica durata cinque mesi.

Guidata da Stefano era presto diventata la “Commissione Rodotà”.

Grazie al pressing di Stefano la Commissione di studio della Camera aveva anche approvato una Dichiarazione congiunta con la Commissione dell’Assemblea nazionale francese in cui si afferma, a livello internazionale, il concetto di internet quale bene comune mondiale.

Nella mozione, sottoscritta da gruppi parlamentari di maggioranza e di opposizione, si definisce Internet come “uno strumento imprescindibile per promuovere la partecipazione individuale e collettiva ai processi democratici e l’eguaglianza sostanziale”.

“Un grande risultato” – diceva Stefano Rodotà – “dal punto di vista culturale, per il dibattito pubblico che ne è scaturito; dal punto di vista simbolico, per il luogo che ha promosso questo dibattito, la Camera dei deputati, la casa degli italiani; e dal punto di vista politico perché raggiunto nonostante le diversità”. E in effetti ad ascoltare le dichiarazioni dei parlamentari che si sono succeduti nelle dichiarazioni di voto, i 14 punti della Carta sembrano davvero una sintesi felice delle diverse posizioni dei singoli “partiti”.

Nella Carta, approvata e poi dimenticata da una politica miope e impreparata ad affrontare il futuro, non ci sono temi e argomenti più importanti di altri, è il suo spirito quello che conta, lo spirito della Legge che gli ha infuso Stefano Rodotà. E questo libro ambisce a preservarne la memoria proprio raccontando l’attualità della Carta dei diritti di Internet.