Un codice europeo contro la disinformazione

Un codice europeo contro la disinformazione

Hacker’s Dictionary. False notizie e propaganda sono spesso organizzate a livello centrale e burocratico e possono danneggiare i diritti di cui godiamo in una società aperta. Per questo la Ue ha avviato un percorso per demonetizzare la diffusione della disinformazione online

di ARTURO DI CORINTO per Il Manifesto del 7 Luglio 2022

Pausania, l’eroico condottiero greco della battaglia di Platea, fu vittima di una fake news. Accusato di essere in combutta col nemico, il re persiano Serse, sulla base di un falso carteggio fu costretto a fuggire e, murato vivo nel tempio di Atena, vi morì di fame e di sete.

Ottaviano Augusto fece diffondere delle menzogne su Marco Antonio per privarlo di alcune prerogative e indebolirlo. Sconfitto nella battaglia di Azio e riparato ad Alessandria, si suicidò.

Fu il primo romano a essere vittima d’un provvedimento di damnatio memoriae, la condanna all’oblio riservata ai traditori.
La donazione di Costantino è un documento apocrifo in cui l’allora imperatore faceva concessioni alla Chiesa cattolica. Un falso, ma usato per legittimare la nascita del potere temporale dei pontefici.

Bugie, disinformazione e propaganda non sono una novità nella storia.

Una famosa opera di disinformazione fu organizzata dalla Ceka sovietica negli anni 20 del ‘900 per far credere ai russi bianchi, seguaci dei monarchi zaristi, che la Russia bolscevica fosse tanto debole da essere attaccata e vinta: era l’operazione Trust.
Il documento Tanaka, un falso storico di origine russa, fu presentato come il Mein Kampf giapponese perché il presunto autore teorizzava l’appropriazione della Manciuria e l’intenzione del Giappone di distruggere gli Usa e dominare il mondo.

Il presidente americano Truman nel 1947 creò la Cia che per un ventennio si distinse a Berlino nella political warfare contro l’Unione Sovietica, finanziando finti quotidiani con notizie vere per destabilizzare il nemico. Viceversa i sovietici crearono documenti e lettere fasulle per screditare gli anticomunisti in America.

Si potrebbe continuare a lungo con questi riferimenti storici. Che però hanno un elemento in comune: disinformazione e propaganda sono sempre un tentativo di manipolare le coscienze con informazioni false, disoneste e ingannevoli. Anche oggi ciò che le distingue è l’intenzionalità di fuorviare chi le riceve. E il loro contrasto è fondamentale, essendo un’arma di conflitto e di terrorismo.

È per questo motivo che il 16 giugno 2022 i regolatori UE hanno avviato un percorso per rafforzare il codice di condotta elaborato contro la disinformazione online nel 2018 per demonetizzarne la diffusione, garantire la trasparenza della pubblicità politica e rafforzare la cooperazione con i fact checker. In astratto l’idea di contrasto su cui si basa è quella di evitare un public harm, un danno pubblico.

Nella definizione di public harm la falsità è meno centrale dell’intenzione di ingannare visto che in una democrazia è necessario proteggere anche la libera espressione di falsità, che può però essere censurata quando danneggia altri diritti.
O almeno questo è quello che pensa il legislatore europeo, visto che negli Usa tutto ciò che viaggia attraverso Internet gode della stessa protezione della stampa, una protezione totale, tranne, purtroppo, come nel caso Assange, della divulgazione di notizie di carattere riservato ma non segrete.

Ma perché i regolatori europei sono arrivati a pensare di limitare la libertà di espressione sui social? Perché può causare un danno pubblico che le grandi piattaforme non riescono a contenere.

E non ci riescono perché il loro modello di business è basato sull’attenzione – una risorsa scarsa gestita dagli algoritmi a favore degli inserzionisti – che si attiva di fronte a conflitti, fatti inconsueti e dissonanti, le bufale, perno della propaganda social e della manipolazione delle percezioni organizzata dalle centrali della disinformazione di massa.

* Se ne parlerà a un convegno di Stampa Romana il giorno 8 Luglio dalle 15:30. L’evento sarà trasmesso in diretta streaming sui canali Facebook e YouTube di Stampa Romana

Codice contro la disinformazione

Che c’entra il Bitcoin con le rivolte in Kazakistan e gli scontri in piazza

Che c’entra il Bitcoin con le rivolte in Kazakistan e gli scontri in piazza

Aumenta il costo di energia elettrica, si rallenta la blockchain e i miner kazaki protestano con la gente comune. E forse è tempo di una regolazione di tutto il mondo cripto

di ARTURO DI CORINTO per ItalianTech/LaRepubblica del 10 Gennaio 2022

Il valore del Bitcoin è crollato a 36mila euro e forse c’entra pure la protesta kazaka: sono molti gli osservatori che hanno messo in relazione l’aumento della presenza di miner illegali di criptomonete nel Paese con la decisione del governo di tassare il consumo di energia e le rivolte di piazza.

Ma che c’entra il Bitcoin con le rivolte di piazza? Da quando la Cina ha messo fuorilegge la produzione e la commercializzazione di criptovalute, molte aziende del settore si sono spostate proprio in Kazakistan per sfruttare una regolamentazione favorevole e un basso costo dell’energia prodotta da fonti non rinnovabili. Questo ha contribuito a incrementare il consumo di energia elettrica del 10% e indotto il governo ad aumentare i prezzi dell’energia con l’imposizione di nuove tasse. Tasse che hanno determinato una vera e propria ribellione dei cittadini, con morti e feriti, cui si sono aggiunti i miner legali e illegali che avrebbero soffiato sul fuoco sulle rivolte.

Con un effetto boomerang: per silenziare le proteste, il governo ha bloccato Internet, allo stesso tempo bloccando la capacità dei miner di estrarre criptovalute, impedendo l’aggiornamento della blockchain. Risultato? La potenza di calcolo globale della rete di Bitcoin è di colpo crollata del 14%, con un rallentamento globale delle transazioni in Bitcoin e una sostanziale difficoltà di minarne di nuovi.