Il 9 Febbraio si è celebrata la giornata mondiale dedicata alla sensibilizzazione dell’uso sicuro e responsabile di Internet da parte dei minori, il Safer Internet Day.
Le aziende di cybersecurity hanno fatto a gara a inviare comunicati densi di consigli, ma la riposta dei media è stata per lo più modesta. Radio, tv e giornali non hanno abbastanza esperti, fondi, e spazio per parlarne, ma è anche il riflesso di una forte resistenza cognitiva a valutare gli aspetti negativi dell’uso delle piattaforme Web, delle app di messaggistica e dei social media.
A squarciare il velo d’ipocrisia della comunicazione “social” ci ha pensato il nostro Garante privacy quando ha chiesto e ottenuto dall’app di video-sharing TikTok di vigilare sull’accesso dei minori alla piattaforma perché i suoi utenti non sempre hanno la maturità necessaria per valutarne i rischi.
Ma non esiste solo TikTok.
I giovani usano le chat dei videogame e la maggior parte di loro usa Discord e Snapchat, lasciando Facebook, Twitter e LinkedIn agli adulti. E Facebook, nonostante la pessima reputazione dopo lo scandalo di Cambridge Analytica, secondo il Digital Forensic Lab del Consiglio Atlantico, continua a ospitare spie, mestatori e bufalari: e a raccogliere dati sui nostri comportamenti in rete, anche attraverso le sue controllate come WhatsApp.
Twitter combatte ogni giorno con terrapiattisti, Qscemi e novax ma le starlette della politica-spettacolo l’hanno eletto a luogo di baruffe quotidiane, mentre LinkedIn analizza la rete di relazioni che costruisci per offrirti anche lavori non pagati.
Che esempio stiamo dando ai nostri figli?
Complice la retorica della comunicazione di tutti verso tutti, la paura di essere tagliati fuori dal discorso pubblico, la disperata ricerca di relazioni, i primi difensori di questo web tossico sono proprio gli adulti che aspirano a un barlume di notorietà, che giustificano la loro presenza con motivi di business e che, con la loro ignoranza della grammatica della sicurezza, aprono le porte all’hate speech, ai cyberbulli, a stalker e hacker criminali.
Invece di insegnare il valore della libertà di espressione che Internet promuove, la rovesciano nel suo contrario, silenziando le voci più gentili e gli utenti più fragili dati in pasto a haters e scansafatiche.
Dietro questi comportamenti c’è una resistenza psicologica a volere rendere le piattaforme digitali responsabili degli algoritmi che premiano il conflitto in rete, la distribuzione di fake news, la profilazione dei comportamenti a fini commerciali, ma soprattutto c’è la stolida sottovalutazione del valore della propria privacy.
Ce l’hanno dimostrato in questi giorni gli adulti che si sono catapultati dentro ClubHouse, il social audio dove si entra per invito per chiacchierate da twittare al proprio “pubblico”, come fosse una notizia. Clubhouse con la sua privacy policy all’acqua di rose sarà il nuovo incubo dei Garanti Privacy, quando se ne accorgeranno.
Per questo è da accogliere con sollievo la decisione del Garante per le comunicazioni, Agcom, che ha avviato una mappatura di tutti i servizi attualmente offerti sulle piattaforme online facendone emergere, accanto ai vantaggi individuali e collettivi, anche i rischi e le problematiche: dai comportamenti illeciti che mettono in pericolo le piccole e medie imprese, all’hate speech e più in generale alle violazioni dei diritti fondamentali “capaci di compromettere l’integrità dei processi democratici, l’autonomia decisionale degli individui, la tenuta del tessuto sociale, il pluralismo informativo e la tutela dei minori”. Condividi: