Il Manifesto: Non confondete Rousseau con la democrazia elettronica

Non confondete Rousseau con la democrazia elettronica 

Hacker’s Dictionary. Il voto elettronico usato da un’associazione privata come Rousseau è legittimo, ma la scelta fra due opzioni calate dall’alto non è un buon esempio di democrazia, somiglia piuttosto a un referendum

di ARTURO DI CORINTO per Il Manifesto del 5 Settembre 2019

La piana di Thingvellir in Islanda è nota per aver dato i natali alla prima assemblea parlamentare. Era il 930 dopo Cristo. L’Althing, l’assemblea generale d’Islanda, vi si riuniva una volta l’anno e lo faceva nei pressi di un «emiciclo» lavico delimitato da due dirupi rocciosi paralleli, perfetti per sfruttarne l’eco naturale. Durante queste sessioni parlamentari i Lögsögumenn («oratori della legge») promulgavano nuove leggi, dirimevano le dispute e organizzavano feste e gare sportive.

Le condizioni di Thingvellir erano perfette per un’assemblea: buon pascolo, legna da ardere e acqua. In aggiunta, Thingvellir incrociava antiche rotte di viaggio, a un giorno di cavallo dai principali distretti dell’Islanda meridionale e occidentale.

Il luogo scelto per l’assemblea risolveva quindi un problema di tempo e di spazio: far partecipare tutti e farceli arrivare presto, rendendo possibile far sentire bene a tutti chi parlava, e che all’epoca non aveva un microfono. La scelta di Thingvellir risolveva anche un problema di comunicazione.

È noto che i dilemmi dell’agire collettivo si dimezzano con l’evoluzione della comunicazione tanto che oggi, grazie alla diffusione di tecnologie digitali, c’è chi ritiene di poter fare a meno di luoghi deputati e di politici di professione per praticare tutti la democrazia diretta, al computer.

Non è sbagliato. Dopotutto il senso profondo della democrazia riposa sull’opportunità di coinvolgere il più largo numero di cittadini nelle decisioni pubbliche.

Ma nell’esercizio della democrazia, come farlo è altrettanto importante. Per questo il processo democratico presuppone il diritto a informarsi, confrontarsi e decidere. In libertà e con la presenza di un arbitro. Il voto è solo il momento finale di questo processo.

Perciò, oggi che la «democrazia al computer» è entrata con forza nella storia del paese dopo la votazione per il governo «Conte 2» sulla piattaforma Rousseau, è bene ricordare che il voto elettronico non va confuso con la democrazia, che invece – come diceva Stefano Rodotà – è un processo perennemente costituente. Un processo continuo che parte dalla ricognizione dei problemi, dialoga sulle soluzioni e gli interessi degli attori sociali e si concretizza in momenti di discussione, di consultazione e deliberazione.

La partecipazione attiva è qui sia lo scopo che il presupposto della democrazia. Il voto fra due opzioni calate dall’alto non è democrazia, ma piuttosto un referendum.

Negli anni, istituzioni come il Senato della Repubblica Italiana si sono interrogate (leggi qui) su come fare evolvere il sistema della democrazia rappresentativa coinvolgendo il maggior numero di cittadini con l’uso di Internet, software e piattaforme.

A tre condizioni però: che il loro uso sia certificato, trasparente e accessibile a tutti. E con un’avvertenza: il loro impiego deve servire a potenziare il metodo democratico, non a evadere il sistema di controlli e di contrappesi che le democrazie hanno raffinato nei secoli.

Perciò se gli esperimenti di democrazia diretta organizzati tramite Rousseau sono il frutto dei tempi che viviamo e vanno bene per un’associazione privata, va sottolineato che l’«e-voting» non può sostituirsi all’esercizio del voto democratico per tre motivi che la piattaforma dei Cinquestelle ancora non garantisce: il voto deve essere segreto, verificabile, e non può essere oggetto di scambio.

D’altra parte, come diceva Rossana Rossanda, co-fondatrice di questo giornale: «Il lavoro della democrazia è un lavoro lento, lungo, colto e difficile». Un lavoro che neanche Internet può esimerci dal fare.