Appena qualche giorno fa il governo nigeriano ha annunciato (con un tweet) di aver sospeso a tempo indeterminato Twitter nel Paese in seguito alla rimozione di un controverso tweet del presidente nigeriano Muhammadu Buhari. Per il microblog il presidente avrebbe violato le regole della piattaforma; secondo le autorità nigeriane, invece, la piattaforma sarebbe responsabile di alimentare la crisi sociale nel paese. Ecco il punto nodale. Le aziende private possono stabilire le regole d’uso dei propri servizi: cambiano i termini di servizio, decidono restrizioni, accessibilità dei contenuti e copertura geografica. Ma i governi devono accettarlo? E che succede se invece sono i governi a imporre le regole all’uso che facciamo di Internet e dei suoi servizi?
Leader aziendali, politici e commentatori hanno iniziato a riflettere sul divieto totale di tecnologie come Bitcoin. Ma la proposta di mettere fuorilegge la cryptomoneta basata sulla blockchain solleva tre questioni più ampie. La prima riguarda il principio generale della neutralità tecnologica: se diciamo che non ci piace Bitcoin perché può essere utilizzato dai delinquenti, dobbiamo fare lo stesso per altre tecnologie e strumenti finanziari? Poi: il divieto per una risorsa posseduta da circa 46 milioni di americani significherebbe criminalizzare il 14% della popolazione statunitense per il semplice possesso di chiavi crittografiche la cui persecuzione rappresenterebbe una forma di incarcerazione di massa. Infine, i Paesi democratici possono essere d’accordo con la Cina e l’Iran, che hanno annunciato di volere reprimere l’estrazione e il commercio di Bitcoin?
La Rete è nata e si è imposta in un contesto a bassa regolazione che ha permesso all’innovazione che cresceva ai suoi margini di prosperare e creare nuove opportunità per i cosiddetti netizen, i cittadini globali della Rete. Per lungo tempo sono state le comunità tecniche a decidere il funzionamento del Web, inglobando nei protocolli e nelle tecnologie un’idea di apertura, interoperabilità e sviluppo condiviso. Chiaramente, è stato fatto con l’ausilio delle aziende di telecomunicazione e un controllo “soffice” e distante dei governi che non avevano ancora capito le sue potenzialità. Quando i governi hanno compreso pienamente il potenziale della Rete, hanno usato la loro forza statuale per imporre un’idea di sovranità digitale, un processo oggi accelerato da un contesto in cui i rapporti di forza pendono dalla loro parte. Il risultato? La possibile balcanizzazione dell’uso di Internet e dei suoi servizi. internet
Che cosa vuol dire la “balcanizzazione” di Internet?
Si intende frammentazione di un’infrastruttura che per funzionare adotta regole condivise di carattere tecnico, legale e perfino culturale, cui ci si riferisce con il concetto di Internet governance. Una governance basata su rough consensus e running code (in italiano, consenso approssimativo e codice funzionante), sulla possibilità di tutti di connettersi, sulla neutralità delle transazioni e il rispetto dei diritti umani.
Ecco, questa idea condivisa di governance da cui guadagnano tutti, oggi sembra a rischio.
Paradossalmente è stata la pandemia da coronavirus a consentire una maggiore frammentazione di Internet e delle sue regole. Riducendone la libertà globale: ora che tutte le attività umane (commercio, istruzione, sanità, socializzazione) sembrano essersi spostate online, i governi hanno colto l’occasione della grande paura per controllare la Rete e plasmarne lo narrazione, censurare le voci critiche e costruire nuovi dispositivi tecnologici di controllo sociale.
Nazioni come il Myanmar, la Turchia e il Brasile hanno usato la pandemia come pretesto per limitare l’accesso alle informazioni dei propri cittadini chiudendo siti e servizi, in alcuni casi usando il protagonismo degli attivisti come capro espiatorio. Altri hanno usato la situazione di emergenza per giustificare l’estensione dei poteri di sorveglianza, usando la digitalizzazione a tappe forzate dei servizi sanitari per moltiplicare la raccolta e l’analisi dei dati delle persone senza adeguate protezioni contro gli abusi.
In alcuni casi, La sorveglianza biometrica, i big data e l’intelligenza artificiale sono state “militarizzate” per ottenere informazioni sensibili sullo stato di salute, sui modelli di acquisto e comportamenti sociali usando riconoscimento facciale, vocale e del volto incrociati con il nostro codice genetico.
I pericoli della frammentazione
Ma il vero pericolo è la frammentazione dei flussi di informazione attraverso la Rete in una corsa alla sovranità digitale che ha l’obbiettivo di filtrare la comunicazione globale attraverso i confini nazionali, escludendo la comunità dei tecnici dalle decisioni che hanno permesso alla Rete di funzionare, sempre secondo il principio del rough consensus e del running code. Che è la base della neutralità della Rete, il concetto secondo cui “tutti i bit sono nati uguali” e non ci possono essere autostrade (virtuali) per i servizi a pagamento, e mulattiere per quelli gratuiti, delle associazioni no-profit, delle Ong e degli attivisti.
Ma i protocolli tecnici, gli standard di sicurezza e le normative commerciali che avevano consentito la connessione di miliardi di persone a una rete globale di informazioni e servizi oggi sono pesantemente condizionati da attori potenti. Pronti a piegarsi ai diktat statuali.
Splinternet, la frammentazione della Rete, dipende proprio da questo:
- l’introduzione di standard tecnici imposti dalle aziende per mantenere i netizen all’interno dei cosiddetti walled garden;
- il divario digitale causato dalla scarsa infrastrutturazione di alcuni territori;
- le leggi censorie che ne limitano il libero accesso e utilizzo.
Si parla di Splinternet anche quando le dinamiche tipiche dei social network tendono a creare le cosiddette echo-chamber, le casse di risonanza, i cui muri si chiudono intorno a chi cerca solo conferme alle proprie tesi invece di discuterle con chi la pensa diversamente. Una tesi già espressa con il nome di cyber-balcanizzazione dal teorico Cass Sunstein negli anni 2000, anche se il termine Splinternet sembra potersi attribuire a Clyde Wayne Crews, ricercatore del Cato Institute, che lo usò nel 2001 per descrivere “le Internet parallele che funzionano come universi distinti, autonomi e privati”.
Ma oggi quelli che vogliono una Rete Halal, cioè pura e controllata dallo Stato, strumento geopolitico verso l’esterno e strumento di sorveglianza verso l’interno, non nascondono più le pretese censorie dietro il concetto di sovranità digitale. tutorial
Ma che cose’è la sovranità digitale?
La sovranità digitale è la pretesa dei governi di regolare il funzionamento di Internet secondo i propri modelli culturali e valoriali e sta diventando la scusa per reprimere i diritti umani nel mondo: Cina a Russia usano tecniche di Deep packet Inspection (cioè il filtraggio dei pacchetti di bit) e gli Human flash Engine, cioè sorveglianti umani, per controllare i loro cittadini online. E lo stesso vale per l’Arabia, l’Iran, Hong Kong, dove la Cina ha usato il pugno duro contro i “reati di linguaggio” per reprimere il movimento democratico. E ogni volta che le società tecnologiche statunitensi hanno annunciato l’intenzione di sospendere l’erogazione dei loro servizi in quei Paesi come ritorsione per leggi sempre più draconiane, hanno ricevuto una sola risposta: accomodatevi. Oppure sono state ricattate, come successo in Turchia, dove i maggiori social network sono stati costretti ad avere rappresentanti locali, negli uffici locali e soggetti alle leggi locali. La Russia fa lo stesso ed è arrivata a pretendere di avere dentro casa i server di Telegram. Ma questo vale per molti altri servizi che crediamo universali e uguali in tutti i Paesi.
Per esempio, Google potrebbe decidere di archiviare le informazioni personali dei cittadini sauditi in un nuovo centro Cloud in Arabia Saudita, dove le autorità mettono a tacere attivisti, giornalisti e difensori dei diritti umani, anche attraverso esecuzioni extragiudiziali, detenzioni e torture. Come ha denunciato Marwa Fatafta, Policy manager Mena di Access Now.
A Nuova Dehli, in India, dopo che Twitter ha etichettato il tweet di un membro del partito al governo come fake, una cellula speciale della polizia ha perquisito gli uffici cittadini dell’azienda. Proprio mentre la più grande democrazia del mondo implementa regole dei social media pericolose e profondamente antidemocratiche.
In Laos, il ministero della Pubblica sicurezza sta istituendo una taskforce per monitorare le piattaforme social e combattere la disinformazione, comprese le false informazioni relative alla pandemia: “Il fatto che sarà composto da rappresentanti della polizia e dello Stato, senza fact-checker indipendenti, società civile o altre organizzazioni non statali, amplifica il rischio incombente di attacchi e molestie contro i netizen”, ha detto Dhevy Sivaprakasam di Access Now.
Dopo che diversi organi di stampa in Cambogia hanno utilizzato Facebook per trasmettere in streaming filmati di persone in attesa in lunghe file per farsi vaccinare, le autorità hanno vietato le segnalazioni indipendenti nelle zone rosse di Phnom Penh, aree ritenute ad alto rischio per la trasmissione di Covid-19.
In Marocco e altri Paesi nordafricani, le cryptomonete basate sulla blockchain e quindi su Internet sono state messe fuorilegge. Alcuni Paesi vogliono vietare la crittografia o perlomeno avere una chiave universale per leggere le comunicazioni cifrate, vecchia ossessione americana, mentre in molti Paesi centroafricani gli shutdown, le interruzioni di Internet, sono ormai frequenti in periodo elettorale o eventi di carattere nazionale: è successo in Camerun, Sudan, Togo, Tanzania e altri.
Studiosi e attivisti temono la fine dell’Internet aperta. Soprattutto dopo le reazioni degli Stati Uniti, che durante la presidenza Trump hanno imposto il divieto a popolari app cinesi come TikTok e WeChat sull’esempio dell’India, adducendo preoccupazioni per la sicurezza nazionale: “Questa è Splinternet”, ha detto in proposito Dipayan Ghosh, già consigliere tecnico di Obama alla Casa Bianca e direttore del Digital Platforms & Democracy Project della Harvard Kennedy School.
La lunga battaglia sui dati personali
Ancora: i legislatori in Brasile, Nigeria, Turchia e Russia hanno approvato o preso in considerazione regolamenti che richiedono alle aziende di impedire ai dati delle persone di lasciare il Paese per consentire alle forze dell’ordine di avere un accesso più facile alle informazioni sensibili. Perché la battaglia sulla sovranità di Internet è soprattutto una battaglia sulla governance dei dati che sono generati in Rete.
La Cina la pretende per motivi di “stabilità sociale”, gli Usa per la “sicurezza nazionale” e l’Unione europea per “difendere la privacy”: imponendo la localizzazione dei dati, i governi sono in grado di monitorare e sorvegliare i cittadini.
Ma, anche quando mirano a frenare le pratiche repressive, le azioni conseguenti a queste dottrine servono a legittimare la spinta per ogni Stato a controllare una sorta di sua “Internet nazionale”, che in precedenza era sostenuta solo da regimi repressivi
L’enorme valore che viene dall’Internet aperta, gratuita e globale è incommensurabile per la libera espressione, l’impegno comunitario e lo sviluppo economico. Ma ormai è pratica comune: quando l’organizzazione civica e il dissenso politico traboccano dal regno dei social media nelle strade delle città bielorusse o del Venezuela, i dittatori chiudono le reti per soffocare qualsiasi richiesta di maggiore democrazia e diritti.
Tema affrontato già nell’Igf globale del 2019, secondo cui la cosiddetta “sovranità della rete” è un modo diverso di affermare la sovranità sui dati. Sotto sotto c’è la tentazione di trattare il cyberspazio come le acque internazionali, lo spazio aereo e i confini, perché non essendoci confini fisici, alcuni Stati cercano di regolamentare l’uso di questi beni comuni globali. Ma il cyberspazio è diverso: è interconnesso, è tecnicamente interconnesso, e quando si parla di sovranità come sviluppo e attuazione di politiche indipendenti, controllo dei dati, dei contenuti, di controllo e protezione dell’infrastruttura, è davvero difficile pretendere di essere indipendenti a causa della natura stessa della Rete.
Il controllo indiretto sull’infrastruttura critica di Internet è ancora sotto l’autorità degli americani: se c’è qualcuno che davvero gestisce Internet, lo fanno l’Icann e le piattaforme digitali. È un vantaggio, considerato il valore che gli Usa attribuiscono alla libertà e alla democrazia. Perciò più nessuno mette in dubbio la sovranità degli elementi tecnici che costituiscono la spina dorsale di Internet, ma le preoccupazioni relative alla sicurezza informatica, compresa la vulnerabilità delle infrastrutture critiche al terrorismo e a soggetti ostili, hanno fatto sì che anche la libertà di espressione che la Rete promuove e rappresenta, sia oggi minacciata da leggi autoritarie e dalla censura degli algoritmi, sia da parte degli Stati sia dagli oligopoli responsabili di social network, motori di ricerca, servizi digitali e di data mining.
Internet è un servizio universale globale come il sistema postale nel XIX Secolo e come tale andrebbe trattato. Senza che nessuno guardi cosa c’è dentro la casetta delle lettere.