La guerra dell’informazione. Gli stati alla conquista delle nostre menti

La guerra dell’informazione. Gli stati alla conquista delle nostre menti

L’informazione non è un pranzo di gala; non è un’opera letteraria, un disegno, un ricamo; non la si può fare con altrettanta eleganza, tranquillità e delicatezza, o con altrettanta dolcezza, gentilezza, cortesia, riguardo e magnanimità. La rivoluzione è un’insurrezione, un atto di violenza con il quale una classe ne rovescia un’altra». Se sostituiamo la parola informazione alla parola rivoluzione nel testo originale di Mao Zedong qui parafrasato dal “Libretto Rosso” (pp.12-13), possiamo condensare in una frase tutto il significato che il professore David Colon ha voluto trasferirci con il suo nuovo libro La Guerra dell’Informazione. Gli Stati alla conquista delle nostre menti (Piccola Biblioteca Einaudi, 2025).

Secondo il professore francese, docente di Storia della comunicazione, media e propaganda presso lo Sciences Po Centre d’Histoire di Parigi, nell’era dell’intelligenza artificiale e della guerra cognitiva, i mezzi di comunicazione tradizionali prima e i social media dopo sono il teatro di un conflitto senza esclusione di colpi, che ha come posta in gioco le nostre menti.

Colon descrive con dovizia di particolari trent’anni di questa guerra rimasta a lungo segreta svelando le strategie dei committenti e le logiche dei protagonisti: agenti segreti, diplomatici, giornalisti e hacker.

Pur riconoscendo che la logica dell’uso dell’informazione come arma di guerra abbia i suoi capisaldi nella disinformatia russa, nel political warfare americano e nella dottrina di guerra cinese, russa e americana, il professore decide di avviare la sua narrazione con una vicenda ignota ai più: la battaglia per il controllo dell’informazione all’epoca dell’invasione del Kuwait da parte dell’Iraq di Saddam Hussein. Una storia che fa impallidire tutti coloro che oggi temono le fake news nel processo democratico. All’epoca, infatti, per convincere gli stati Uniti a intervenire a sostegno del piccolo ma ricco paese del Golfo minacciato da Saddam, l’emirato ingaggiò una della maggiori aziende di public relations al mondo, la Hill&Knowlton per creare lo storytelling necessario. Usando circa 30 milioni di dollari, ingaggiando attori e pagando giornali e riviste, il primo evento di quella guerra ad essere propagandato all’unisono dai media internazionali fu infatti il racconto di una giovane infermiera kuwaitiana piangente che, a favore di telecamera, raccontò come la soldataglia di Saddam fosse entrata negli ospedali strappando i neonati dalle culle buttandoli a terra per farli morire di freddo, un fatto che commosse tutto il mondo libero, ma che non era vero. Si trattava di una bufala. Il fatto non era mai accaduto, e la giovane testimone dei presunti fatti era nientemeno che la figlia dell’ambasciatore del Kuwait all’ONU.

Di storie come questa Colon ne tratteggia molte nel suo testo, fino ad arrivare ai giorni nostri, all’occupazione russa della Crimea nel 2014 da parte dei russi e all’invasione del Donbass nel 2022, in una guerra che sicuramente si combatte nel fango del fiume Dnipro ma anche nella trincea di Internet dove eserciti regolari e irregolari si fronteggiano a colpi di virus, malware e propaganda, bianca, grigia e nera.

Lettura attraente che spazia dall’uso dei meme all’intelligenza artificiale nel conflitto Israele-Hamas, per descrivere l’impiego degli hacker di stato che un po’ rubano (cryptovalute), un po’ combattono sul fronte del sabotaggio cibernetico. Con un convitato di pietra, però: l’uso che gli stati democratici fanno dei media nei loro stessi paesi per conseguire quegli obbiettivi che i governi non possono dichiarare.