La legge forse più pericolosa per la libertà di americani e resto del mondo rimane però la sezione 702 della legge antiterrorismo FISA (Foreign Intelligence Surveillance Act) che autorizza la raccolta senza mandato di ogni informazione utile allo scopo della sorveglianza globale.
Le vite degli altri
Neanche il presidente americano Donald Trump è riuscito a revocarla. Nonostante il postin cui esprimeva il proprio scetticismo sulla sorveglianza governativa ha ricevuto così tante pressioni da dover fare marcia indietro.
Così il Congresso americano nel gennaio del 2018 ha approvato la legge che rinnova ed estende la Sezione 702 della legge antiterrorismo FISA del 1978 – nata all’indomani del Watergate – che autorizza la raccolta di qualsiasi comunicazione elettronica attraverso il computer o il telefono, nei confronti di qualsiasi cittadino straniero fuori dagli Stati Uniti senza un mandato del giudice. E questo nonostante le proteste e l’opposizione delle associazioni a difesa della privacy come Access Now, Electronic Privacy Foundation, Epic, nonché degli avvocati della privacy e di alcuni membri del Congresso.
La legge, nella forma attuale, permette di registrare nei database della National Security Agency (Nsa) (1) i nominativi di chi si parla al telefono, il testo di ogni email scambiata, persino la cronologia di navigazione sul web con la scusa dell’antiterrorismo. E non viene applicata solo agli “stranieri in terra straniera” ma a chiunque abbia contatti con persone residenti all’estero. Scavalcando di fatto il Quarto emendamento della Costituzione americana che impedisce richieste di questo tipo senza un mandato.
Ma il punto più controverso della legge rimane proprio la possibilità di usare le informazioni raccolte anche per reati ordinari, diversi dal terrorismo. Ed è possibile usarla per intercettare gli stranieri impegnati in attività di carattere politico e commerciale.
In base a questa legge un giornalista, un politico o un imprenditore possono essere spiati in seguito a una semplice richiesta degli organi di polizia americani verso un operatore telefonico o un colosso della Silicon Valley che fornisca servizi email, cloud, social a cittadini, sia stranieri che americani, in contatto fra di loro. È già successo. Perfino la premier tedesca Angela Merkel ha lamentato l’intrusione degli apparati di intelligence americani nelle comunicazioni dei governi alleati in Europa.
Ma questa pratica viene da lontano. La National Security Agency, voluta nel 1952 dal presidente americano Henry Truman, ha infatti incominciato a intercettare e registrare telefonate e email senza mandato su richiesta dell’amministrazione Bush dopo l’attentato alle Torri gemelle del 2001 e in particolare sulla base di un progetto noto come Stellarwind.
Nel 2008 il Congresso americano ha legalizzato questa forma di sorveglianza globale proprio grazie alle disposizioni di legge della Sezione 702 della legge FISA che non solo autorizzava le intercettazioni ma obbligava i giganti come Google e At&T a fornire dati, nomi e numeri dei loro clienti, non tanto per finalità di antiterrorismo, ma per la raccolta generalizzata di informazioni.
Nel 2012 la Sezione 702 è stata rinnovata per cinque anni e anche dopo le denunce di EdwardSnowden – protagonista dell’Nsa Gate nel 2013 – e delle associazioni per la privacy, ha continuato ad essere utilizzata per legalizzare la sorveglianza di massa ai danni dei cittadini di tutto il mondo. La legge, in scadenza il 31 dicembre del 2017 sembrava potesse essere finalmente emendata per garantire il diritto alla privacy almeno degli americani, ma i suoi sostenitori l’hanno spuntata di nuovo grazie alla forte opposizione di FBI ed NSA. Scadrà nel 2023.
Di questa legge si continuerà a parlare a lungo ma solo perché grazie a Snowden oggi abbiamo la certezza che la NSA ci spia tutti.
Chi è Edward Snowden
Figlio e nipote di militari, Edward Snowden ha cominciato a lavorare per la Cia all’età di 22 anni. Assunto successivamente come consulente dalla Nsa, ha denunciato la sorveglianza illegale di questo ente federale americano, basato a Fort Meade nel Maryland, che dal 1952 si occupa di spionaggio elettronico e intercetta oltre venti miliardi di conversazioni e di messaggi ogni giorno.
Snowden è diventato un whistleblower, convinto che per essere un patriota non bisogna essere d’accordo con il proprio governo, e nel 2013 ha raccontato al mondo intero l’esistenza di un gigantesco progetto di raccolta dati relativo a ogni individuo impegnato al telefono o alla tastiera di un computer, il famigerato PRISM, per combattere una guerra che non viene condotta contro il terrorismo, ma per conquistare l’egemonia politica ed economica in un mondo globalizzato dalle tecnologie di comunicazione.
Per questa sua denuncia, raccontata a un pugno di giornalisti e finita sulle prime pagine dei quotidiani e delle tv mondiali, è stato costretto a scappare dal suo paese. È da allora che Snowden è diventato uno degli uomini più ricercati al mondo: per aver dimostrato che con i programmi PRISM e Tempora paesi come USA e Regno Unito sono in grado di controllare la posta elettronica, le ricerche web, il traffico Internet e le telefonate di milioni di persone in tutto il mondo in tempo reale. E tutto questo grazie soprattutto a un programma informatico, XkeyScore, che funziona come Google, ma al contrario di Google è in grado di tracciare tutte le attività che noi ingenuamente pensiamo essere private. Come spogliarci davanti a un computer a riposo che ci guarda attraverso l’occhio di una telecamera accesa da remoto. È per aver denunciato tutto questo e i tribunali speciali di sorveglianza (le corti FISA) che il giovane fuggitivo americano, approdato in Russia dopo una fuga burrascosa da Hong Kong, è diventato, come Julian Assange, il fondatore di Wikileaks, pericoloso per essere la testimonianza vivente di come i governi sono sempre pronti a ingannare i propri cittadini.
Eppure dopo sette anni il caso Datagate da lui denunciato, un tribunale americano ha stabilito che quel programma di sorveglianza è effettivamente «illegale» visto che la National Security spiava attraverso accordi sottobanco con i colossi della tecnologia e della telefonia, le comunicazioni private degli utenti, americani e stranieri. Perfino quelle delle Nazioni Unite e dell’Unione Europea. Al momento dello scandalo i capi dell’intelligence difesero il programma, mentre ora i giudici dichiarano ufficialmente che «non dissero la verità».
La reazione
All’indomani delle rivelazioni di Snowden, il giornalista e anchorman James Fallows scrisse su The Atlantic che l’aspetto più spaventoso e importante di PRISM (e il resto dell’attività di sorveglianza della NSA rivelato dall’ex consulente), è che tutto quello che era accaduto era legale proprio in base al Foreign Intelligence Surveillance Act e ad altre leggi.
“Il fatto che questi programmi siano legali – a differenza del “Watergate” di Nixon, di vari assassinii ordinati dalla CIA, di altre situazioni oggetto di rivelazioni di talpe nel corso degli anni – è l’aspetto più importante. Sono condotti nel “nostro” nome, nostro in quanto americani, nonostante la maggior parte di noi non abbia avuto la minima idea di quello che hanno implicato.”
In seguito alle rivelazioni di Snowden tutti quelli che hanno provato a raccontarne la storia sono stati spiati, intimiditi e accusati di “intelligence col nemico”. Perfino Oliver Stone, pluripremiato regista che ne ha fatto un ritratto serio e poetico nel film omonimo. Non sono i primi né gli ultimi.
Snowden e gli altri
I whistleblower, ovvero i segnalatori di illeciti, danno fastidio, come i giornalisti. ‘Certi’ giornalisti, mica tutti. Ma non immaginavamo che potessero essere trattati come degli spioni, soprattutto nella patria del Primo Emendamento, quello sul free speech. Eppure è questo che ha fatto l’amministrazione americana decidendo di mettere Julian Assange sotto accusa per il lavoro di inchiesta pubblicato dal sito Wikileaks in cui l’organizzazione no-profit denunciò nel 2010 le atrocità della guerra in Iraq e Afghanistan compresa l’uccisione di alcuni giornalisti documentata dal video “Collateral Murder” in cui i piloti di un elicottero da guerra Apache ridono mentre sparano su uno sparuto gruppo di civili che avevano la colpa di imbracciare una telecamera, si dice scambiata per un’arma.
Incriminato negli Stati uniti sulla base dell’Espionage Act del 1917, Assange, editor in chief del sito pro-trasparenza e anti-corruzione, rischia 175 anni di carcere, circa dieci per ognuno dei 17 capi di accusa che gli sono contestati dal DoJ, il Department of Justice americano, “per avere cospirato” al fine di ottenere e pubblicare informazioni classificate, con la collaborazione attiva dell’ex analista dell’intelligence militare Chelsea Manning. La loro colpa più grande? “Condividere l’obiettivo comune di sovvertire le restrizioni legali sulle informazioni riservate” e “causare un grave e imminente rischio per delle vite umane” facendolo. La prima accusa è parzialmente vera; la seconda no, come sa chi ha letto la vicenda processuale di Manning nei cui atti giudiziari è scritto a chiare lettere che la commissione che doveva indagare su quel presunto rischio non ne ha trovate le prove.
La prima sembrava un’accusa minore elevata in base alla legge sulla protezione dei computer di cui avrebbero cercato di superare le difese manomettendo una password senza riuscirci. Una storia di hacking, insomma, la cui pena massima avrebbe dovuto essere di cinque o sei anni, invece, come alcuni di noi sospettavano e hanno detto, era solo la scusa per chiedere a Londra l’estradizione e poi imputarlo con altri capi d’accusa in grado di portarlo alla sedia elettrica. L’11 aprile scorso Assange era stato arrestato nell’ambasciata dell’Ecuador a Londra, dove era rifugiato da sette anni, per violazione del rilascio su cauzione e non essersi presentato ai giudici temendo per la sua vita, ma subito era trapelata la notizia di un mandato di arresto americano coperto da segreto.
Era stato detto che la richiesta di estradizione irrogata dai procuratori federali di Alexandria, in Virginia, fosse basata sul Computer Fraud and Abuse Act (CFAA) del 1986. Però la legge ha un tempo di prescrizione di cinque anni, e quindi Assange e Manning avrebbero dovuto già esserne fuori. Non ci stupisce perciò che oggi l’accusa sia diversa e basata su una legge del 1917, l’Espionage Act, mentre l’invocazione della CFAA è stata usata per convincere l’attuale presidente ecuadoriano Lenin Moreno a toglierli ogni protezione, si è rivelata per quello che era: un grimaldello per delegittimare l’hacker, matematico, giornalista ed editore australiano, e per costituire, al contempo un precedente e una minaccia, contro ogni altro whistleblower.
News Gathering
Hacking non riuscito a parte, però la richiesta, la ricezione, l’analisi di informazioni, anche riservate, è news gathering, in gergo, raccolta di informazioni, come sa qualsiasi giornalista. Come ha detto l’ex portavoce del Ministro della Giustizia di Obama: “Una cosa è incriminare un impiegato governativo, un’altra indiziare chi pubblica o sollecita informazioni governative dal di fuori, che è quello che i giornalisti fanno sempre.”
La stessa posizione l’ha espressa Dean Baquet, premio Pulitzer e direttore responsabile del New York Times: “Ottenere e pubblicare informazioni, che il governo vuole mantenere segrete, è vitale per il giornalismo e la democrazia. Le accuse (ad Assange, ndr) sono il tentativo del governo di controllare quello che agli americani è permesso di sapere.”
Per questo stanno massacrando Assange: attaccando lui attaccano ogni giornalista e la funzione di watchdog della stampa. Però non hanno il coraggio di dirlo e per questo sguinzagliano i detrattori di Assange, quelli che, sbagliando, pensano sia stato il servo stupido di Mosca che ha favorito la vittoria di Trump pubblicando le email della Clinton (qui i 17 capi di imputazione non c’entrano), e allora dicono che non è un giornalista; e poi lo attaccano come hacker, affermando che non è neanche un editore.
Ma se lui non è un editore, lo sono, invece, quelli che hanno pubblicato le sue storie: come ha ricordato Seymour Hersh, il giornalista investigativo che ha denunciato il massacro di My Lai in Vietnam: “Oggi incriminano Assange, domani, forse, il New York Times e quelli che hanno pubblicato le informazioni fornite da Assange.” Oppure: “è come se il Times e il Post fossero accusati di aver pubblicato i Pentagon Papers (sulla guerra sporca in Vietnam, ndr),” ha detto Alan Dershowitz, l’avvocato che difende la CNN in casi simili. Secondo Ben Wizner dell’Associazione americana per le libertà civili, “Il governo ha intentato accuse penali contro un editore a causa della pubblicazione di informazioni vere. Questo stabilisce un pericoloso precedente che potrà essere usato per colpire tutte le organizzazioni giornalistiche ritenute responsabili dal governo.”
Quando l’Espionage Act nel 1973 fu usato contro Daniel Ellsberg per la rivelazione dei Pentagon Papers, ci fu a un’epica battaglia per il diritto a pubblicare informazioni coperte da segreto di Stato, una battaglia vinta per la libertà di stampa. Bisogna rifarla. Oggi Julian Assange, a processo per essersi sottratto alla giustizia inglese per l’accusa di un reato di strupro che non aveva commesso, violando la libertà condizionata, è a processo in un’aula senza testimoni, e sta lentamente morendo in un carcere inglese in attesa della sua probabile estradizione negli Stati Uniti per aver raccontato quello che ogni giornalista dovrebbe raccontare, la verità.
«Democracy dies in Darkness»
La democrazia muore nelle tenebre, si legge sopra la testata del Washington Post, il giornale che ha denunciato lo scandalo Watergate. Norberto Bobbio amava dire che la democrazia è «governo pubblico in pubblico», rammentando l’Atene di Pericle. Lo storico e politologo italiano voleva dire che la democrazia, per essere tale, deve garantire un esercizio partecipato, trasparente e comprensibile per tutti. Dove non c’è trasparenza la democrazia muore.
Non sappiamo come siamo arrivati fin qui, ma la storia recente ci dice che senza i giornalisti i tribunali segreti possono violare ancora la regola medievale dell’Habeas corpus, come è accaduto con i programmi di Extraordinary rendition, le detenzioni illegali e Guantanamo, e senza i whistleblower nazioni intere non saprebbero che governi e corporation hanno imbrogliato i loro cittadini nascondendogli la verità. È successo con la guerra del Vietnam, con l’antracite finta sventolata da Colin Powell alle Nazioni Unite, è successo con i Panama Papers e i Fincen Files.
A queste derive della democrazia ognuno di noi può proporre un rimedio, ma, come diceva Stefano Rodotà, «Per le infezioni della democrazia la luce del sole è spesso il miglior disinfettante».
Lì dove alligna il male, cresce anche l’antidoto.
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Nota al testo
(1) L’Electronic Frontier Foundation ha pubblicato online una cronologia completa di eventi legati alle attività di sorveglianza della NSA.