Il Manifesto: Proteggiamo i civili dalle guerre informatiche

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Hacker’s Dictionary. Infowar, netwar, cyberwar, sono la declinazione delle nuove guerre dell’informazione. I primi a rimetterci, come in ogni guerra, sono sempre i civili e la verità

di ARTURO DI CORINTO per Il Manifesto del 28 Maggio 2020

Mentre scuola, lavoro, burocrazia e sanità si spostano sul web, perché non dovrebbe essere lo stesso per guerre, spionaggio e criminalità organizzata?

D’altra parte più ci affidiamo alle tecnologie digitali per la nostra vita quotidiana più essa diventa fragile. Infrastrutture obsolete, difese inadeguate e ignoranza sono il problema.

E non saranno i giganti del web che sincronizzano i loro sistemi operativi con le app sanitarie a salvarci da una Pearl Harbour digitale.

In questo mese abbiamo visto Israele e Iran combattersi con missili cibernetici, ogni volta dicendosi che i danni erano minimi, ma intanto stabilendo un precedente per la guerra informatica aperta.

Dopo il riuscito attacco delle Guardie islamiche al sistema idrico della regione di Sharon, la presunta rappresaglia israeliana ha colpito un porto iraniano, bloccandolo, e subito dopo centinaia di siti web ebraici sono stati defacciati da sedicenti “Hacker del Salvatore”, pro-Palestina. Azione seguita su Twitter da post infuocati tra il primo ministro Benjamin Netanyahu e la guida spirituale iraniana Ali Khamenei.

Sempre sui social, i Cinesi hanno fatto propaganda con falsi video in cui gli italiani fuori dai balconi cantano “Viva la Cina” mentre la redazione russa di Sputnik ha messo in discussione la nostra sanità pubblica.

Non solo. Secondo il Comitato Parlamentare per la Sicurezza della Repubblica, il Copasir, “Profili fake, rilancio di post Facebook, siti esteri che diffondono in modo coordinato notizie fuorvianti sono solo alcune delle forme dei fenomeni di disinformazione riconducibili al mondo del web, volti a creare sovraccarico informativo circa l’individuazione dei vaccini, i rimedi terapeutici e gli strumenti diagnostici efficaci a fronte del contagio da Covid-19”.

Nel frattempo i governi di Sudan, India, Myanmar, Indonesia ed Egitto rallentano e bloccano l’accesso a Internet per larghe fette della popolazione e oscurarne le opinioni dissidenti.

In questo scenario le banche di tutto il mondo sono un target privilegiato dai delinquenti digitali.

I dati raccolti da VMware Carbon Black dicono che dall’inizio di febbraio alla fine di aprile 2020 gli attacchi informatici contro il settore finanziario sono cresciuti del 238%. Per Tom Kellermann di VMware “Nel corso degli anni, i furti alle banche si sono evoluti, passando dalle rapine fisiche agli ostaggi virtuali, con cybercriminali e nation-states hacker che hanno tentato di sfruttare a proprio vantaggio gli effetti della trasformazione digitale”.

Le agenzie di brokeraggio informatico come Zerodium, che trafficano in malware per rivenderlo ai migliori offerenti, militari e sindacati criminali, hanno perfino smesso di comprare gli ‘zeroday’, le vulnerabilità sconosciute del software, per attaccare gli iPhone, considerati i telefoni più sicuri al mondo, perché se ne offrono troppi.

Poi si scopre che un’azienda israeliana, la NSO, avrebbe usato server americani per bucare WhatsApp con cui è in causa per l’hackeraggio di circa 1100 giornalisti, politici e attivisti che usano la popolare app di messaggistica, per controllarli.

E il commissario Covid Domenico Arcuri dice in un’intervista che Giuseppe Conte l’ha obbligato a usare Whatsapp per una comunicazione costante.

È anche un problema culturale.

Deve cambiare il nostro modo di rapportarci alla tecnologia, usandola per tutelare i diritti umani e civili di chi la rete la usa ogni giorno.

Ognuno di noi deve fare la sua parte, imparando anche quello che a scuola non si insegna per proteggere privacy, salute, e libertà di scelta.