Analfabeti e iperconnessi: la democrazia a rischio social
Hacker’s dictionary. Le persone sono sempre meno capaci di distinguere le notizie vere da quelle false, si distraggono continuamente, tendono a rinchiudersi in una comfort zone dove sanno che le loro idee non saranno verificate
di ARTURO DI CORINTO per Il Manifesto del 18 Ottobre 2018
Nel prossimo futuro forse guarderemo agli utenti dei social media come oggi guardiamo i fumatori, persone che sanno di fare qualcosa di sbagliato eppure continuano a farlo. A pensarci bene il momento potrebbe non essere troppo lontano.
È stato proprio il caso Cambridge Analytica ad aver scoperchiato il vaso di pandora della dipendenza da social: sappiamo che i dati conferiti vengono usati per creare una platea di potenziali acquirenti per gli investitori pubblicitari, renderci docili consumatori, conoscere i nostri gusti politici e orientarli a colpi di fake news, slogan e black advertising, ma continuiamo a regalargli preziose informazioni sotto forma di tag, like, link, foto, video e messaggi. In realtà siamo già alla fase due: i nostri dati vengono usati per allenare le intelligenze artificiali che tra poco prenderanno il nostro posto nei compiti intellettuali dopo aver già sostituito tornitori, magazzinieri e autisti.
Nonostante i ripetuti databreach Facebook continua a macinare utili e i numeri dell’abbandono del social network più popoloso di tutta la Cina, non sembrano impensierirlo: gli scandali e le violazioni della sicurezza hanno appena eroso la sua base.
In Italia però, secondo il Censis, 9 italiani su 100 non si fidano più di Facebook come canale informativo.
Mentre gli effetti di Instagram sono ancora poco studiati e i gruppi su WhatsApp pure, abbondano quelli su Twitter, considerata dagli utenti la piattaforma più affidabile dove esercitare la propria retorica e acchiappare consensi.
Eppure l’ultimo studio del Pew Research Center ci dice che la maggior parte degli utenti americani di social sa dell’esistenza di programmi automatici, i bot, che simulano comportamenti umani come replicare ai post o produrli per target specifici e che non si fidano di quei messaggi.
Nel frattempo arrivano, come se piovesse, le conferme scientifiche che l’uso compulsivo di smartphone, tablet e pc per accedere alla rete e in particolare ai social network, ai motori di ricerca e ai social media sta determinando un cambiamento antropologico come ha bene raccontato l’ultima puntata di Presa Diretta su Rai3.
In sintesi: le persone sono sempre meno capaci di distinguere le notizie vere da quelle false, si distraggono continuamente, tendono a rinchiudersi in una comfort zone dove sanno che le loro idee non saranno verificate, e non capiscono le informazioni complesse. Un rischio per la democrazia che si basa sul confronto, sul rispetto della diversità e sulla tolleranza: basta andare sui social per accorgersene. In fondo i social sono fatti per rappresentarsi, prendere posizione e non per dialogare.
Perciò per affrontare il problema nel breve termine è nata un’iniziativa dal nome Social Science One, una partnership tra università e industria per analizzare la ricchezza informativa accumulata dalle aziende e studiare gli «effetti dei social media su democrazia ed elezioni».
Sarà finanziata da sette fondazioni non profit e basata su un sistema di peer-review accademico. Una commissione di professori identificherà i set di dati rilevanti, e dopo una valutazione scientifica ed etica li pubblicherà.
«Dal punto di vista delle scienze sociali l’iniziativa mira a fornire l’accesso alla più ampia e completa base di informazioni mai utilizzata per studiare i social media e il comportamento umano in generale».
La ricerca inaugurale ha come partner principale Facebook che però, dicono, «fornirà i dati dei suoi utenti in maniera trasparente e rispettosa per la privacy».