Nella mente dell’hacker

I dilettanti hackerano i computer, i professionisti hackerano le persone. Questa efficace e famosa sintesi di cosa significhi l’hacking, Bruce Schneier la argomenta con un raffinato ragionamento nel suo ultimo libro: La mente dell’hacker. Trovare la falla per migliorare il sistema pubblicato nel 2024 in italiano da Luiss University Press.

Il titolo dice già molto. Intanto l’hacker non è più il mostro della peggiore pubblicistica degli ultimi anni, ma una figura che va letta in chiaroscuro rispetto all’evoluzione dei sistemi umani.

In aggiunta, l’hacking, l’esplorazione delle possibilità all’interno di un sistema dato, termine in origine legato al mondo dell’informatica, secondo Schneier è diventato una pratica onnipresente nei sistemi economici, finanziari e sociali. Approccio metodico alla ricerca delle vulnerabilità strutturali che definiscono il nostro mondo, l’hacking dimostra come ogni sistema, dalle leggi fiscali alle intelligenze artificiali, può essere manipolato e sfruttato. Dall’hacking del sistema fiscale per pagare meno tasse, vedi Google & Co. fino al jackpotting, al ransomware e agli attacchi cibernetici tra gli Stati. Per l’autore ogni hack può essere letto come strumento chiave nella gestione del potere e del denaro nei suoi molteplici aspetti.

Un hack è infatti «un’attività consentita da un sistema, che sovverte però gli scopi o gli intenti del sistema stesso». E cos’altro è un sistema se non «un processo complesso, determinato da una serie di regole o norme, pensato per produrre un o più esisti desiderati»? Quindi l’hacking è esattamente questo: individuare la vulnerabilità di un sistema e trovare l’exploit per sfruttarla. In definitiva vale per ogni sistema, quelli informatici, quelli sociotecnici, quelli cognitivi. Lo scopo dell’hacking è di ottenere un vantaggio. Ma le contromisure sono sempre possibili. E questo vale anche per la democrazia, che può difendersi dagli usi imprevisti della libertà che consente, e vale anche per l’Intelligenza Artificiale: hackerandola capiamo meglio come possa essere messa al servizio delle persone e non della guerra e del profitto. Poiché libertà e democrazia riposano oggi su sistemi informatici, gli hacker possono ancora fregiarsi del titolo di «eroi della rivoluzione informatica» come li chiamava Stephen Levy già nel 1996.

Ho sognato una rete intergalattica

Internet non è il Web, e il Web non è Internet. Internet non nasce come strumento militare, e i militari non hanno mai controllato l’intera Internet. Mettetevelo in testa.

Oggi, a 56 anni dalla nascita di Internet ce lo ricorda un libro, a firma di chi la Rete l’ha pensata e progettata, e cioè J.C.R. Licklider, un secchione, psicologo, esperto di psicoacustica, che in questo modo ha influenzato per sempre comunicazione e società. Il libro si chiama «Ho sognato una rete intergalattica. Scritti su Internet prima di Internet» e, con la prefazione del professore Luigi Laura, ed è stato pubblicato nel luglio del 2025 dalla Luiss University Press di Roma.

Licklider progettò Internet, l’Intergalactic computer network,come lo chiamava lui, nella forma che poi assunse, quando dirigeva l’IPTO, l’ufficio competente dell’Advanced Research Project Agency, ARPA, e il suo avvio viene fatto coincidere con il primo scambio di saluti attraverso quella che era chiamata inizialmente Arpanet, cioè la rete dell’Arpa.

Era il 29 ottobre 1969.

Il Web venne trent’anni dopo. Fu progettato nel 1989, chiamato World Wide Web nel 1990 e solo nel 1991 comparve il primo sito Web. Tutto merito di uno scienziato inglese di stanza al CERN di Ginevra, sir Tim Berners Lee, affascinato del modo in cui gli italiani si scambiavano informazioni piene di dettagli e racconti basati su continue digressioni e collegamenti.

Arpanet nel 1969 collegava 4 nodi e si chiamerà Internet solo dopo due eventi: il fork tra Arpanet e Milnet, e la creazione del protocollo TCP/IP.
Fu proprio uno dei due scienzati che ne scrissero il protocollo principale a dargli il nome Internet, con la maiuscola. Si chiamava Robert “Bob” Khan, che ci lavorò per dieci anni insieme a Vinton Cerf. Il protocollo TCP/IP (in realtà una famiglia di protocolli), era pensato per consentire a “computer diversi appartenenti a reti eterogenee”, di comunicare fra di loro. E attualizzava proprio l’idea di quel geniaccio di Robbnett Licklider: consentire alle persone di collaborare a distanza.

Il resto è una storia bella da conoscere.