La Repubblica: I cinque mesi da incubo dell’hacker che difende i diritti umani

OLA BINI è un attivista svedese per i diritti umani che vive in Ecuador dal 2013 dove lavora allo sviluppo di software di sicurezza. Difendendo il diritto alla privacy con il suo lavoro, ha permesso a giornalisti e attivisti di condividere informazioni e raccogliere prove in modo sicuro evitando la sorveglianza illegale dei governi. Ola Bini è stato arrestato ad aprile. Accusato di violazione di sistemi informatici e cospirazione, è stato detenuto ingiustamente e adesso, a indagine quasi conclusa e senza prove, accusato di altri reati imprecisati.
La sua vicenda ha allertato la comunità internazionale del software libero e gli esperti di sicurezza informatica in tutto il mondo tanto che Amnesty International è intervenuta duramente denunciando la violazione dei suoi diritti da parte delle autorità. Come ha detto Fernanda Doz Costa, vicedirettore di Amnesty International, “in un paese dove gli attacchi ai difensori dei diritti umani spesso rimangono impuniti, le accuse infondate nei loro confronti vengono immediatamente indagate”.La vicenda del programmatore è esemplare. Lo svedese, attivista per i diritti digitali che ha realizzato con la Electronic Frontier Foundation nuovi tool per garantire la sicurezza dei siti web, ha fondato a Quito, capitale dell’Ecuador, il Centro per l’autonomia digitale con lo scopo di mettere nelle mani dei cittadini strumenti per la privacy di facile utilizzo, innervosendo non poco le autorità del luogo.

L’arresto

Accusato fuori dei tribunali di aver contribuito a divulgare i conti bancari off-shore del presidente di estrema destra Lenin Moreno, in combutta con Wikileaks e Julian Assange, Ola Bini è stato arrestato l’11 aprile 2019 dopo la conferenza in cui l’allora ministro dell’Interno María Paula Romo annunciava la decisione del paese di togliere ad Assange lo status di rifugiato politico, confondendo l’attivista svedese con presunti hacker russi rei di voler destabilizzare il governo in combutta col Venezuela. Arrestato all’aeroporto di Quito, senza mandato, e tenuto all’oscuro dei capi di imputazione a Bini è stata negata persino la possibilità di avere un traduttore, di comunicare con l’esterno, di chiamare un avvocato. Neanche l’ambasciata svedese è stata informata della sua incarcerazione. Il 16 Aprile, a un evento pubblico a Washington, D.C., il Presidente Moreno, per manifestare la svolta politica rispetto al governo di sinistra che aveva protetto Julian Assange nella sua ambasciata di Londra, aveva detto che Bini era “responsabile di aver hackerato account governativi e sistemi telefonici”.

Solo dopo due mesi e mezzo, il 20 giugno, il tribunale però ne ordinava la scarcerazione riconoscendo che la sua detenzione arbitraria ne aveva violato i diritti alla libertà personale e a un giusto processo. Contattato da Repubblica, Carlo Mendoza di Amnesty International ci ha confermato che Bini adesso “è in libertà condizionata, non può lasciare il paese e deve presentarsi ogni settimana alle autorità.” Non potendo provare l’attacco informatico il primo agosto le autorità lo hanno accusato di evasione fiscale.

La mobilitazione internazionale

Per molti osservatori quello di Ola Bini è più un caso politico che una vicenda criminale e, secondo Amnesty contribuisce a creare un’atmosfera di intimidazione e paura tra coloro che difendono i diritti digitali e la privacy in Ecuador. Perciò l’organizzazione per i diritti umani invoca un giusto processo al programmatore. In attesa di averlo però, il 17 agosto la stampa ecuadoriana vicina al governo ha diffuso delle fantomatiche prove contro di lui, in particolare la fotografia della schermata di una connessione Telnet fatta da Bini a un server governativo dove però l’accusato non è mai entrato, arrestandosi al suo ingresso come fanno tutti gli hacker etici di fronte a un cancello aperto dove c’è scritto ‘Vietato Entrare’, prima di avvisare le autorità competenti. Che è quello che Bini ha provato a fare contattando come intermediario Ricardo Arguello, una figura ben nota nella comunità ecuadoriana del software libero. Eppure che non sia penetrato nel server si vede bene dalla schermata arrivata – non si sa come – nelle redazioni.

I cinque mesi da incubo dell'hacker che difende i diritti umani
Il 26 agosto la procura ha chiesto di riformulare le accuse contro di lui dato che la procura non è stata in grado di dimostrare il presunto attacco ai sistemi informatici. Usando le parole del suo avvocato, Carlos Soria, il gruppo di sostegno internazionale a suo favore riunito sotto l’hashtag #FreeOlaBini ha dichiarato che si tratta di “Una misura disperata e illegale, cinque giorni prima della fine dell’indagine. Un caso esemplare su come violare la Costituzione e i diritti umani”. Il caso di Bini non è un caso isolato. È il problema di tutti i ricercatori di sicurezza che svolgono un ruolo vitale nel correggere i difetti di software e app che usiamo ogni giorno e che, nell’ambito del loro lavoro, li scoprono e li comunicano ad aziende e governi, un dovere civico che i governi confondono ancora con la pirateria informatica.