Net-War. Ucraina: come il giornalismo sta cambiando la guerra

Net-War. Ucraina: come il giornalismo sta cambiando la guerra è l’ultimo libro di Michele Mezza per Donzelli Editore (2023). La Net War è per l’autore una guerra ibrida combattuta a colpi di informazione; una guerra in cui saperi e abilità tecnologiche hanno sostituito i sistemi d’arma; una guerra che rovescia le gerarchie e sposta il campo di battaglia. In questa guerra secondo Michele Mezza i cittadini hanno dato forma a una specie di open source del combattimento visto che ognuno, collegandosi con i sistemi e i dispositivi che la rete offre, ha potuto opporsi alle forze convenzionali sul campo. Quindi per l’autore, giornalista, già ideatore di Rainews24 quando era dirigente in Rai, poi docente universitario incaricato, la Net war non è tanto una digitalizzazione dell’informazione nel conflitto ma il modo in cui si combatte il conflitto, usando l’informazione. La Rete in questa guerra ibrida è luogo, strumento e logistica della guerra.

Per parlare di questa evoluzione della guerra l’autore chiama quindi in causa il giornalismo che la guerra la racconta, ma anche come professione investita dalla stessa, per rispondere a una domanda: che cosa sono l’informazione e la conoscenza al tempo della Rete e dell’Intelligenza artificiale? Come si trasforma la professione del giornalista quando si riduce il suo ruolo di divulgatore e quando smette di essere l’unico ed il primo ad accedere alle fonti informative? E come l’informazione, che è sempre anche intelligence, viene arruolata nella guerra? Insomma, come si trasforma l’informazione?

Michele Mezza abbozza delle risposte a partire dalla concettualizzazione della “società civile come arsenale” fino all’apporto che grandi aziende come quelle di Elon Musk hanno dato alla modificazione del concetto di guerra nella dottrina militare occidentale. E finisce con una dissertazione su come il potere dell’algoritmo, che decide il destino dell’informazione in Rete, interferisca sulle psicologie degli eserciti in divisa e no, visto che oggi la guerra è soprattutto interferenza psicologica. E qui forse basterebbe ricordare il grande giornalista e propagandista Walter Lippmann: “Quando tutte le notizie sono di seconda mano e ogni testimonianza si fa incerta, gli uomini cessano di rispondere all’autorità e rispondono solo alle opinioni”, separate dai fatti.

Come non scrivere

Qualcuno pensa che, finita la scuola, la scrittura non farà più parte della sua vita. Niente di più sbagliato: anche nella società dell’immagine la scrittura è ancora la forma di comunicazione prevalente.

Social network, messaggistica istantanea, studi, rapporti, ci obbligano tutti a misurarci con la nobile arte dello scrivere.
Succede anche a lavoro, con schede, memorandum, presentazioni, interviste e report che però non raggiungono sempre l’obiettivo della comunicazione scritta, che è quello di comunicare, a distanza, con qualcuno che non sempre si conosce, in maniera riflessiva o sull’onda di un accadimento. Però, concordano gli esperti, più scriviamo, meno sappiamo scrivere. E scrivere diventa una tortura, sia per chi scrive che per chi legge.

Esempi? C’è anti-lingua burocratica, quella degli apparati, c’è la lingua della comunicazione veloce, delle chat di gruppo, dei rapporti trimestrali, che a un’analisi anche superficiale si rivelano piene di tic ed errori, come nel gergo giornalistico o nelle liturgie ministeriali. Che fare?
Non basta leggere un libro su come si scrive per imparare a scrivere bene, e non basta un manuale di tuffi per diventare campioni, ma aiuta. È il caso di Come non scrivere. Consigli ed esempi da seguire, trappole e scemenze da evitare quando si scrive in italiano di Claudio Giunta (UTET, 2018).

Gli esempi di “come non scrivere” che l’autore propone sono molti e riguardano l’uso eccessivo della paratassi, la mania di mettere la virgola dopo il soggetto separandolo dal verbo, le frasi rimate, i sostantivi astratti, i verbi all’infinito e il punto escalamativo usato come il prezzemolo. E poi ancora, i puntini di sospensione, l’uso esagerato di perifrasi e metafore fino all’abuso di formule come “le eccellenze del territorio”, per finire con le castronerie scritte in globish o in latino italianizzato.

Per questo Giunta ci ricorda che possiamo scrivere e bene, a partire da alcune leggi:

La legge di #Borg. Alla domanda di un giornalista se fosse più dura giocare contro McEnroe o contro il nonno, il famoso tennista rispose che ci metterebbe lo stesso impegno in tutti e due i casi. Ecco, la scrittura richiede impegno, non conta a chi stai scrivendo.

La legge di Catone: “Rem tene, verba sequentur”, che vuol dire che se hai pronto il concetto è pronta anche la parola e solo allora ti sarà facile comunicare quello che intendi: “Se conosci le cose di cui vuoi scrivere le parole verranno da sole”. Lev Vygotskij, il famoso scienziato russo, e Aleksandr Romanovič Lurija, arriveranno alle stesse conclusioni dopo 2000 anni studiando la mente umana.

Assange può essere estradato negli Usa. L’hacker-giornalista ingiustamente accusato rischia 200 anni di prigione e di finire a Guantanamo

Assange può essere estradato negli Usa. L’hacker-giornalista ingiustamente accusato rischia 200 anni di prigione e di finire a Guantanamo

di ARTURO DI CORINTO per Articolo21 del 10 Dicembre 2021

Journalism Award Won by Wikileaks and Julian Assange

Alla fine è successo. La notizia che non avremmo mai voluto dare è che L’Alta corte di Londra ha ribaltato la decisione contro l’estradizione di Julian Assange. Lo ha fatto perché secondo i giudici il governo degli Stati Uniti offrirebbe garanzie sufficienti che Assange riceverà cure adeguate e quindi il co-fondatore di Wikileaks può essere estradato.

Ma a parte i giudici di Londra, che con la Svezia hanno attivamente collaborato per incastrare il giornalista australiano sulla base di accuse sconfessate anche dalle querelanti, non ci crede nessuno.

La fidanzata di Julian, Stella Moris, ha fatto sapere che i legali di Assange presenteranno al più presto ricorso contro la decisione all’Alta Corte di Londra di stravolgere la sentenza di primo grado che a gennaio aveva negato la sua estradizione negli Usa per timore che si suicidasse. Così il caso passa ora al tribunale di Westminster che si occupa di decidere sulle richieste di estradizione. Ed è singolare che accada proprio nel giorno in cui il mondo celebra l’anniversario del 10 dicembre 1948, quando l’Assemblea generale delle Nazioni Unite adottò la Dichiarazione universale dei diritti umani.

Gli stati Uniti hanno infatti costantemente ignorato i diritti umani e civili di Assange che, obbligato a rifugiarsi per ben 7 anni nei 20 metri quadrati dell’ambasciata ecuadoriana a Londra è stato quotidianamente spiato dai suoi apparati di polizia prima di essere “venduto” all’amministrazione Trump dal discusso presidente peruviano Lenin Moreno quando appena eletto decise di ritirargli la protezione diplomatica facendolo arrestare dalla polizia inglese dentro l’ambasciata nell’aprile del 2019.

La verità è che Assange è scomodo un po’ per tutti, e su di lui si consuma la vendetta di chi ha cospirato per tenere l’opinione pubblica all’oscuro dei crimini di guerra commessi dall’esercito americano e dai suoi alleati in Iraq e Afghanistan destabilizzando l’intera regione per un decennio con effetti che ancora tutti paghiamo in termini di insicurezza politica e sociale ai nostri confini e perfino nelle nostre città.

È però l’isolamento del giornalista, hacker, whistleblower che è alla base della scelta dei giudici e della forza della richiesta di estradizione.

Ce lo ha dimostrato la miopia del dibattito alla nostra Camera dei Deputati sulla mozione presentata dall’onorevole Pino Cabras per concedergli lo status di rifugiato politico. Un dibattito misto di ignoranza, inerzia, disinformazione e vigliaccheria manifestate da una sinistra rintronata, ma anche da quelle forze, i Cinquestelle, che ne avevano fatto una star per la sua incessante denuncia di malgoverno e corruzione dalle pagine di Wikileaks, il sito pro-trasparenza da lui fondato e attraverso il quale aveva pubblicato documenti contenenti i registri delle guerre d’aggressione in Afghanistan e Iraq e le comunicazioni diplomatiche del 2010, anche sollecitandole da alcuni informatori. come fanno tutti i giornalisti.

Isolato ma non solo. Julian Assange rimane un simbolo fragile e potente per tutte le persone sensibili e informate, per i pacifisti, per gli avvocati dei diritti umani, per i patrioti che non devono per forza essere d’accordo col loro governo, per tutti quelli che aspirano alla verità.

Per questo come Associazione Articolo 21 abbiamo deciso di donargli la tessera associativa consegnandola nelle mani della giornalista Stefania Maurizi che ne ha seguito e ricostruito la storia in tredici lunghi anni d’inchiesta sulla base degli elementi fattuali della sua vicenda umana, pubblica e processuale.

Lo abbiamo fatto perché Assange è un eroe del nostro tempo a cui ci accomuna una costante ricerca di verità e di giustizia e per questo il suo destino continuerà ad interessarci tutti, alla pari dei giornalisti del New York Times, del Guardian, dello Spiegel, del Pais, dell’Espresso e de La Repubblica che hanno lavorato con lui alla divulgazione di quelle prove condividendone le responsabilità. E ci auguriamo che saranno con noi a combattere la battaglia per la trasparenza e la libertà d’informazione facendolo liberare, in attesa che gli altri nostri colleghi si sveglino dal torpore del disinteresse e capiscano che ognuno di noi può finire come Assange, in galera per avere esercitato il diritto e il dovere di informare il pubblico.

Storie di Giornalismo

I giornalisti sbagliano. Come i medici, gli avvocati, i poliziotti, i magistrati, i manager, i bancari, i programmatori. Se non sbagliassero, i giornalisti non avrebbero di cosa scrivere.

La differenza è che l’errore dei giornalisti è visibile, quello di altri professionisti spesso non lo è, oppure è noto solo alla ristretta cerchia degli interessati.

Algoritmi, fake-news, accordi tra editori e Big Tech: il caos calmo dell’informazione

FESTIVAL DEI DIRITTI UMANI

TALK

In streaming il 23 Aprile dalle ore 15:30

Partecipano

Anna Masera, public editor de La Stampa
Vincenzo Vita, Presidente Archivio audiovisivo del movimento operaio e democratico
Roberto Reale, giornalista, scrittore e docente
Elisa Marincola
Arturo Di Corinto, giornalista, La Repubblica
Laura Nota, professore ordinario presso l’Università di Padova
Raffaele Lorusso, segretario generale della Federazione nazionale Stampa italiana (FNSI)

Articolo21: Perché è difficile combattere le fake news

Perché è difficile combattere le fake news

di ARTURO DI CORINTO per Articolo 21 del 21 GENNAIO 2018

Le fake news, le notizie false, sono un problema serio per le democrazie che attingono la loro linfa vitale dall’opinione pubblica che si forma sulla diffusione e discussione di notizie di rilevanza collettiva. Il pericolo è noto: attraverso le notizie false è possibile manipolare l’opinione pubblica e orientare le decisioni di governi, delegittimare personalità e Istituzioni e inquinare perfino il dibattito scientifico.
Le fake news sarebbero responsabili della sconfitta di Hillary Clinton nella corsa alla Casa Bianca, frutto di una velenosa strategia di dinsinformazione che ha favorito tra le altre, la diffusione della notizia, falsa, che la ex first lady gestiva un giro di pedofilia nello scantinato di una pizzeria nell’Indiana.
Le fake news sarebbero però anche le opinioni sfavorevoli alle politiche di Trump il quale ha deciso di premiare le testate giornalistiche secondo lui più attive nella produzione di notizie false che lo riguardano: New York Times, Washington Post, Cnn. Continua a leggere Articolo21: Perché è difficile combattere le fake news